Il letto di Procuste (o Damaste), secondo la mitologia greca, era l'incudine su cui il brigante Damaste poneva le persone che rapiva tra i monti in cui viveva, in Attica. Il brigante li forzava a rispettare la forma del letto-incudine: se i loro corpi erano troppo grandi, ne amputava gli arti che fuoriuscivano; se piccoli, li stirava per far combaciare la loro forma con quella dell'incudine. Le motivazioni contingenti del gesto non sono il punto cardine: il fatto centrale sta nel meccanismo con cui il caro Damaste straziava i tristi avventori del suo, non molto comodo, "letto".

Ciò che Damaste opera è la riduzione dell'individuo a categoria definita di confini e forme. Non so però se Damaste pensasse alla sua attività come "tortura" oppure come necessità interiore.

Ai posteri è stato dipinto come malvagio brigante che abitava i monti: se non fosse così?
Se Damaste fosse stato un uomo disorientato dalla varietà del mondo che, in preda al panico, avesse sentito l'incontrollabile esigenza di modellare ogni persona in una forma riconoscibile, il suo letto-incudine, per poter controllare le incognite che valicavano i suoi monti?

Ma più si pensa a Damaste in questi termini, più passa dall'essere un mostruoso brigante a un sorpreso e sofferente uomo che vuole conoscere e legiferare la realtà. E così le montagne che lo circondano si fanno palazzi, il suo viso arcigno si trasforma in affabile sguardo sicuro di sé, lo sporco della vita da brigante è ripulito fino a farlo diventare limpido.

Damaste probabilmente era tutt'altro che un brigante cattivo e poco socievole, ma in ogni caso non voglio trovarmi nel suo letto-incudine. Non voglio essere ridotto a un canone del suo repertorio, con un piede tagliato o le spalle stirate fino alla testata del letto, mentre perpetra la violenza dell'immobilismo della sua mente.

Non voglio scrivere nel certo modo che ti tiene attaccato allo schermo, né cercare ossessivamente piccoli dettagli inusitati tipo i nodi delle frange delle lampade antiche per colpirti. Non voglio avere il tono di voce composto con cui ci si rivolge agli sconosciuti per trasmettere sicurezza e consapevolezza - non più di quella che non ho. Non voglio fare un colloquio di lavoro ogni volta che metto i piedi fuori casa, dimostrando al prossimo quanto posso essere sveglio e affidabile.

E camminare senza permettere alle prime impressioni di influenzare il modo in cui passo con i pensieri sul foglio, sullo schermo o su quel diamine che capita (a volte non c'è proprio niente su cui scrivere). Mi sento racchiuso in un guscio di vetro quando mi infilo dentro un cliché. Che Damaste mi lasci multiforme e senza direzione chiara - non serve lo sia.
Sai quanto ci vuole a rompere un guscio di vetro? La cosa peggiore è che in quei momenti spero davvero di non romperla, quella figura trasparente e deformata del mio viso. Prego che non si rompa, perché quello che mi spaventa è l'espressione scandalizzata di fronte alla vista di me stesso, quella che non mi devo impegnare a mostrarti, quella che esce fuori con la stessa naturalezza delle parole, con la spensieratezza dei capelli sciolti e l'avidità con cui si mangia il cibo che è proibito.

Per tutto questo, non ho voglia di faticare per illustrare quel che per me è sotto gli occhi: mi resta soltanto di abituarmi allo sguardo interrogativo con cui Damaste mi guarda e mi chiede cosa ci sia che non vada in me.



Al termine di tutto questo, mi resta una nota allegra che chiude una canzone che inizia a suonare quando hai venticinque anni e le cose cominciano ad andare veloci attorno a te.


Gli occhi che mi vedono senza vetro: già ci sono.